Archivi Blog
Monetine, viti, serrature
Me lo ricordo benissimo: sputi e monetine piovvero in quel caldo pomeriggio che ospitava la gara playoff contro Livorno; inutilmente i poliziotti – invece di inseguire i cecchini toscani – invitarono noi ti-fo-si a “nasconderci” dietro il pullman. Ero ancora giovane e oggi fa tenerezza il “forse è meglio non lo dica a mamma” che accompagnò quel fattaccio, seguente ad una dolorosa sconfitta. Me le ricordo tutte, quelle (almeno) sette ore di pullman, le pause, le risate, gli sfottò e le goliardiche perculate ai danni di questo o quel compagno di viaggio.
Mi ricordo anche del significato del termine “passione”, un sentimento che in altri pulsa nel petto con forza inesauribile: ho visto con i miei occhi giornalisti e/o ti-fo-si (esiste una speciale categoria che li contiene entrambi) sfidare la bora scura invernale o la torrida canicola estiva per raggiungere la buia palestra cittadina per assistere agli allenamenti della “propria squadra”. Anche in tempi non sospetti. Anche dopo le sconfitte. Anche nel precampionato. Anche in serie B2. Sempre le stesse facce, sempre gli stessi volti che si salutano caramente e si riconoscono in questo amore incondizionato verso la pallacanestro. Da sempre.
Mi ricordo i pomeriggi e le sere passate a piegare il capo verso la radiolina (quando ancora i grandi media non avevano predisposto alcun servizio streaming) sperando di sentire dalla voce del mitico R.F. un “canestro!”, “è vinta, è vinta!”. Mi ricordo della difficoltà di premere quel benedetto bottone “off”, anche quando i nostri ragazzi erano sotto di 40 a 10 minuti dalla fine.
Mi ricordo le chiacchierate, invisibili, costanti, nascoste ai più, gli incitamenti a venire a sostenere i nostri ragazzi al palazzo; anche quando non c’erano alcun soldout, nessun “muro”, metaforico o meno; anche quando i fasti della massima seria parevano miraggi, mentre noi tutti leggevamo tristemente i poco blasonati nomi delle avversarie che la “nostra squadra” avrebbe affrontato. Lo zoccolo duro degli amanti del basket a Trieste esiste anche grazie a queste persone.
Mi ricordo le viti che tenevano a fatica in piedi quelle panche dove – dall’alto – abbiamo dato voce alla prima di campionato. Giornalisti, tifosi, pubblicisti, professionisti e appassionati: una situazione poco consona (si può dire?) soprattutto per chi lavora come giornalista.
Penso alle serrature, ideali o reali, che chiudono i canali di comunicazione o che chiudono l’accesso ad un innamorato dello sport agli allenamenti della “propria squadra” (lo ribadisco perché mi piacerebbe i lettori avessero ben in mente il bagliore negli occhi di quei giornalisti che non hanno mai svestito i panni del tifoso fedele). Nel 2018, quando tutto il mondo ha compreso il valore della condivisione e della comunicazione in ambito cestistico, chiudersi, è un autogol. Ma non nella porta dei giornalisti.
Sorrido, perché chi ha già vissuto i cosiddetti tempi bui (che affermazione da anziano!) non si lascia del tutto trasportare dall’entusiasmo e dai fasti della serie A. Chi ha buona memoria, infatti, è sempre pronto a ricordare a se stesso che “tutto cambia” e che tutto questo clangore di ferramenta è destinato ad arrugginirsi. Eppure…anche quando tutti quelli che ora sono balzati allegramente sul carro dei vincitori dovessero abbandonare la città e la sua passione indomita, anche quando tutto dovesse crollare, gli dei del basket accorderebbero una speciale concessione a questo cambiamento ineluttabile. E così, sempre nella buia palestra di prima, sentiremmo ancora i passi di quegli stessi adepti (che i tifosi conoscono persino meglio del sottoscritto), intenti ad appoggiarsi stancamente alla balaustra per seguire la “propria squadra”.
Chi sono questi, fantasmi? Per niente: li potete trovare nel punto più alto del palazzetto, e sono sempre felici di parlare di pallacanestro.
Il chiodo fisso