Pubblichiamo una lettera di un addetto ai lavori, Paolo Radovani, spedita a Dino Meneghin e apparsa sul sito http://www.megabasket.it. Diversi gli spunti d’interesse, dal sottoscritto assolutamente condivisibili.
“Carissimo signor Meneghin,
Sono un allenatore di Trieste, ed opero in una piccola società. Le scrivo questa lettera poiché ne sento la necessità, pur immaginando (sperando, anche) che Lei la riterrà inutile e totalmente fuori luogo.
Ed è un paradosso che io possa essere felice di scrivere una lettera auspicando di sbagliare obiettivo od analisi, tuttavia nel mio intimo me lo auguro fortissimamente. Così come però mi auguro di riuscire ad esprimere il mio disagio al meglio.
Non so se se ne sia accorto, ma il basket in Italia sta morendo. O quantomeno è in rianimazione, tenuto in vita artificialmente. E, questo, nel momento in cui al vertice abbiamo il più rappresentativo presidente di sempre, un mito riconosciuto da tutto il movimento della pallacanestro europea, un esempio di determinazione per tutti noi, che abbiamo giocato e ci siamo nutriti di pane e basket dagli anni ’70 ad oggi.
Io mi appello a Lei perché faccia, nell’ultimo periodo del suo “regno”, ciò che non ha fatto, o potuto fare, in precedenza: ABOLISCA LE BARRIERE NEI CAMPIONATI MINORI!!!
Non voglio entrare nel merito dei rimborsi, tasse e balzelli, penali e quant’altro, che aggravano le società che cercano di fare sport di base (significa allenare e far giocare anche chi non avrà mai la possibilità di entrare in campo in una partita di Prima Divisione…). Mi riferisco solamente ai vincoli di età che, ormai da una quindicina d’anni, pervadono (infestano?) il nostro sport.
Vede, mi duole sottolinearlo proprio a Lei, che lo sa meglio di tutti: lo sport è l’unica attività umana assolutamente meritocratica. Io segno = io gioco; io non segno = sto in panca. Un’equazione banale banale, vera, inattaccabile, incontrovertibile. In sostanza, io che alleno da vent’anni, e che ho avuto squadre giovanili, C maschili e femminili, D e di Promozione, ricordo di aver messo in campo in C2 nani sedicenni ipermotivati, senza che nessun senior storcesse il naso, anzi. Così come ricordo nasi assai contorti quando, immeritatamente, dovevo mettere in campo improbabili creature, che stavano a referto solamente per obbligo protezionistico, tipo WWF.
Distruggere la catena della meritocrazia è equivalso a modificare nella sostanza il significato di sport, che dovrebbe vedere l’emergere, dal confronto, dei migliori, la cui selezione deve essere naturale, quasi darwiniana.
Sembra semplice, non è vero? Mi viene in mente un passo di Matteo 5,37: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. Ecco, secondo me ce n’è di roba in più, nel regolamento…
In sintesi: secondo me il gigantismo degli anni ’90, dove c’erano ancora sia i soldi che materiale umano, ha contribuito a forgiare delle regole che, forse, avrebbero potuto andar bene in quegli anni, e magari solamente per la pallacanestro professionistica. Purtroppo però, nel corso del decennio
successivo, le regole sono state modificate in peggio, e nel contempo hanno iniziato a scarseggiare tanto i soldi quanto il materiale umano. Ora, c’è da decidere se, per la FIP, la pallacanestro sia una questione di vertice o di base. Eppure, senza una laurea in geometria, possiamo tutti immaginare che, per avere un vertice degno di questo nome, bisogna avere una base il più larga possibile, ed il più possibile solida. L’impressione è che le norme cui devono sottostare le società minori (che conoscono le realtà e le difficoltà del reclutamento, dei rapporti con i Comuni e con gli Enti pubblici, che cercano di raccattare contributi e microsponsor per non far pagare quote esagerate ai genitori dei ragazzini) vengano scritte da chi, in queste società minori, ci è passato di striscio mille anni fa.
Ormai il danno è stato fatto: dal 2004, ultimo acuto del nostro basket alle Olimpiadi di Atene, ad oggi, il patrimonio umano è stato eroso all’osso. Abbiamo sì tre marziani NBA, ma nel secondo quintetto della Nazionale c’è gente che, in Campionato, gioca si e no 15’. E tutto questo perché non siamo riusciti a rispettare il significato prima del gioco, e poi dello sport: la trasparenza, la sua semplicità. Abbiamo creato gabbie di età, illudendo ragazzini con pochi meriti e facendone giocatori per un anno, dimenticandoli poi, e perdendoli. Ne ho visti a decine, che mi venivano a chiedere di trovar loro una squadra, anche solo per allenarsi. Adesso, tutte quelle squadre che una volta esistevano come pura emanazione di un appassionato che decideva di buttar via qualche lira per partecipare ad un campionato di C2 o di D, non esistono più. Eppure servivano come sbocco per far giocare ragazzini e vecchiacci, che magari l’anno dopo sarebbero stati scelti da una C1, da una B2… La creazione di gabbie di età ed il lievitare delle spese hanno messo in ginocchio questa tipologia di società. Sono in compenso nate società che non hanno prime squadre. Curioso fenomeno: cinquanta ragazzini al minibasket, due squadre fino all’under 17, una sola under 19, e poi… chissà.
Ha un senso tutto questo? Idealmente, intendo. E sportivamente. Economicamente immagino di sì.
Mi aiuti a continuare a credere in questo sport. Provengo da una famiglia sportiva, che mi ha insegnato questi valori fin da piccolo: valori che voglio continuare ad insegnare a chi alleno, e che valgono più di un arresto-e-tiro (per quanto anche questo sia importantissimo…).
Con sincero affetto sportivo
Paolo Radovani
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