Competitivi, senza scomodare luoghi comuni

Primo motivo, il più importante, quello che per cui la Pallacanestro Trieste ha svestito i panni della “Cenerentola” e ha indossato quelli della consapevole realtà. La serie con Brescia è ancora aperta, a margine del vantaggio nella serie. Nessun vittimismo arbitrale ma sana incazzatura per non passar per scemi, salutare senso critico nel riguardarsi indietro, in quel secondo tempo in cui la Germani ha “abusato” fisicamente di Ruzzier e soci (sapendo perfettamente che sarebbe accaduto), voglia di stupire ancora. La squadra di Jamion Christian, nella sconfitta di gara 3, aggiunge paradossalmente un grado di consapevolezza in più, quella di aver dominato un primo tempo in lungo ed in largo. Per farlo nell’arco dei quaranta minuti ha la necessità di avere Colbey Ross, perché Ruzzier stancato da Cournooh, ha autonomia limitata, perché l’americano è un fottuto agonista che può segnare canestri “di striscia” senza guardare in faccia nessuno. Tutti comunque devono trasformare la rabbia ereditata da giovedì sera in intensità, aggressività sportiva bilanciata e non forzata dall’istinto, desiderio di competere oltre ogni ostacolo. Per se stessi, per la propria gente, per la Pallacanestro Trieste.

“Sfogare” il senso di appartenenza

Frustrazione, rabbia, nervosismo, concorrono ad un bagaglio, spesso appresso sulle spalle dei perdenti. Se l’educazione sportiva (qualcuno farebbe bene a prendere qualche ripetizione ndr.) prescinde dalle tossiche controindicazioni, il pubblico in primis deve veicolare la propria passione sportiva nel sano incitamento, nel valorizzare quel senso di appartenenza che rende Trieste non una piazza del basket, LA piazza del basket. Il Palatrieste è stato un teatro spettacolare per tutta la stagione, sempre esaurito o quasi, una marea biancorossa che ha impreziosito la massima serie italiana. La “questione” bottiglietta non deve marcare a fuoco un popolo corretto, un gruppo di appassionati che segue la propria squadra ma che sa anche distinguere un’ “infrazione di passi” o un’ “accompagnata”, da una passeggiata di salute su un parquet (al di là delle supercazzole degli addetti ai lavori).

Colbey Ross serve, eccome se serve

Non abbiamo gli elementi per giudicare la scelta di lasciar fuori da gara 3 Colbey Ross, se sono stato di ordine tecnico o fisico. Di certo, tenendo sempre valide le considerazioni sul tipo di playmaking che l’americano è in grado di proporre, la complementarietà con Michele Ruzzier è un valore aggiunto. Se Ruzz respira, Trieste può schierare un’agonista che diventa marcatore, all’occorrenza, senza coscienza ma con tanta personalità. Non è quindi nell’interpretazione del ruolo che dobbiamo soffermarci ma sulla verve da attaccante di razza, troppa per difensori non proprio irreprensibili come Della Valle e Ivanovic. In sostanza l’attacco con Ross non è un piatto bello da vedere, ma eccellente da gustare.

Il pericolo di voler strafare

Sulla volontà di reazione di Brooks e soci, non c’è il benchè minimo dubbio. Le facce ed il linguaggio del corpo dei protagonisti dopo gara 3 erano eloquenti, al punto di generare una legittima preoccupazione: il rischio di strafare per troppa adrenalina in corpo. Queste situazioni generano due forze uguali e contrarie, o scatenano la forza agonistica del gruppo, o rischiano la perdita del controllo del mezzo, con ulteriore dose di frustrazione e nervi. Ecco quindi che potrebbero essere decisivi gli “equilibratori” naturali del “sistema”, cioè Jarrod Uthoff e Jeff Brooks, nella versione più illuminata, cioè incisivi ma anche leader verso i compagni.

Raffaele Baldini

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